ATTRAVERSAMENTI

La musica in Toscana dal 1945 ad oggi

di
Daniele Lombardi

Dorme Firenze, sotto i raggi della luna… dicevano le parole della famosa canzone Firenze Sogna, e forse questo è stato lo spunto da cui viene l’espressione la bella addormentata - come a volte Sylvano Bussotti ha definito Firenze - ma c’è anche un’altra canzone, altrettanto famosa, che dice: E’ primavera, svegliatevi bambine…
Per chi è nato e vissuto a lungo a Firenze e in Toscana fare un bilancio di mezzo secolo di musica può facilmente indurre nella tentazione di facili metafore sull’imbambolamento, sul culto di una tradizione delle grandi espressioni artistiche, che ha reso oggi questa realtà un grande sistema museale, mentre un sospiro e un pianto si perde lontan…
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In Musicisti del nostro tempo: Vito Frazzi, pubblicato nel 1937, Luigi Dallapiccola descriveva il suo impatto con Firenze:

Per chi oggi è abituato a considerare Firenze uno dei più importanti centri musicali del mondo, mèta dei musicisti d’Europa e d’America, non è facile immaginare che cosa fosse la città di Firenze nel 1922 e negli anni precedenti. La vita musicale non esisteva assolutamente. Ma esisteva un ristretto gruppo di artisti, che faceva capo a Ildebrando Pizzetti e che si radunava appunto a casa Pizzetti, ed è a questo gruppo che si deve in buona parte l’inizio della rinascita musicale della città1

Non è azzardato affermare che proprio il contributo di una grande personalità di artista e di intellettuale come Dallapiccola sia stata determinante per il rapido risorgere di una cultura musicale nella Firenze nel secondo dopoguerra. L’aveva scelta come luogo elettivo – Tre sono gli elementi che credo siano alla base del mio attaccamento a questa città. Prima di tutto le sue pietre e il suo paesaggio; poi la lingua incredibilmente ricca e splendida della sua gente; e ancora più le lapidi dantesche che possiamo leggere su tanti palazzi del centro; cosa questa che costituì per me una sorpresa e una commozione più di cinquant’anni or sono – città di vivaci scambi tra vari intellettuali, artisti e musicisti: una storia non ancora ben approfondita della quale qualche elemento è dato da quanto raccontava Gianandrea Gavazzeni, bergamasco spesso in contatto con la realtà fiorentina, nella introduzione agli scritti di Dallapiccola2

Qualche anno fa Piero Santi cercava di descrivere alcune caratteristiche della visione artistica che circolava in quegli anni, domandandosi:

È lecito, ad esempio, ravvisare nell’arte isolata e aristocratica di Luigi Dallapiccola un atteggiamento di umanistico distacco che lo collega a tanta cultura letteraria fiorentina fra le due guerre? E la religiosità laica di Dallapiccola (la cui formazione, del resto, discende per li rami da Pizzetti, tramite il suo maestro Vito Frazzi) non è in qualche modo imparentata con l’angoscia di Ildebrando da Parma, inverandosi questa nell’umano esperirne il dramma, quella coll’impegnarsi nell’ideale della libertà? Ed entrambe non possono consonare con un diffuso sentimento di religiosità locale, suscettibile di dar luogo, da un lato, allo spiritualismo messianico di un Papini, e magari più avanti alle visioni teosofiche di un Roberto Lupi (quanto influenti sui primi sviluppi dei suoi giovani allievi: Ugalberto De Angelis, Gaetano Giani-Luporini, Alvaro Company, Romano Pezzati), e d’altro lato a un cattolicesimo di sinistra, socialmente impegnato e persino dissidente, ravvisabile nelle figure di un La Pira, di un don Milani, di un padre Balducci, o nel fenomeno dell’Isolotto? Sono leciti questi accostamenti? L’interesse è dato dal fatto che si propongano. 3


La temperie fiorentina era anche surriscaldata dal fatto che non molti anni erano passati dalle cazzottature futuriste nello stesso bar delle Giubbe Rosse dove spesso era possibile trovare anche Eugenio Montale, Loria, Bonsanti, Franchi…
La cultura di quei primi decenni del secondo dopoguerra era caratterizzata dalla volontà di ripresa, di un ritorno alla normalità; ma visti dall’oggi quegli anni che ancora risentivano in parte delle conseguenze dell’autarchia non registrarono una grande osmosi con le vicende dell’arte e della musica in Europa. Si era creata una realtà centripeta nella quale un Dallapiccola rappresentava un raro esempio di contrapposizione a un humus culturale difficilmente estirpabile.
Tuttavia il Teatro Comunale di Firenze riaprì dopo la guerra il 7 ottobre del 1945 con un teatro solo parzialmente restaurato ma con una grande stagione sinfonica che aveva in cartellone anche molte composizioni di autori italiani contemporanei, dal Preludio Magico di Vito Frazzi alla Terza Sinfonia, delle campane di Gian Francesco Malipiero, con un buon auspicio per una vivace programmazione che tenesse conto delle nuove produzioni compositive di quel momento. Molto significativa è la stagione 1947; infatti in questo Decimo Maggio Musicale c’era una grande quantità di musica contemporanea, con la presenza di composizioni di Casella, Pizzetti, Petrassi, Maderna, Mortari, Rossellini, Granchi, Tamburini, Soresina e i fiorentini Rigacci, Grossi, Frazzi e Bucchi. Fatto curioso e allora inquietante fu che in quella occasione i professori di orchestra si rifiutarono di eseguire Musica di Riccardo Nielsen.
Acquista un certo peso, per una informazione più vasta su ciò che accadeva in Europa in quegli anni, la rivista Mondo Europeo, diretta da Bonsanti, a cui collaborava stabilmente anche Luigi Dallapiccola, e contemporaneamente la rivista Piazza delle Belle Arti, un bilanciamento reazionario ad opera dell’“Accademia Nazionale Luigi Cherubini di musica, lettere e arti figurative”, diretta dal 1952 al 1957 da Antonio Lualdi, direttore del Conservatorio. In quegli anni di immediato dopoguerra Valentino Bucchi era critico musicale del quotidiano del CNL La Nazione del Popolo che si scisse in due diverse testate: Il Nuovo Corriere (di sinistra, che fu chiuso nel 1956) e Il Mattino dell’Italia Centrale (democristiano, che poi diverrà Il Giornale del Mattino), sul quale ritroviamo Bucchi, cui fecero seguito Renato Mariani, Leonardo Pinzauti e Luciano Alberti.
La ricerca musicale contemporanea ha spesso sofferto negli ultimi decenni della carenza o della latitanza di una musicologia e di una critica attenta e partecipe, che ne seguisse il cammino, sospendendo un immediato giudizio di valore che nella storia della musica del secondo Novecento abbiamo visto come sia servito alla conservazione o alla creazione di canoni sulla base di criteri estetici normativi o moralistici. Le radici del problema affondano lontane nel tempo: andando a rileggere le recensioni sui giornali, in occasione delle prime esecuzioni di opere ormai celebri che hanno fatto la storia della musica moderna e contemporanea, si può rendersene conto.
A proposito di Schoenberg - per esempio - uno dei miei maestri, Adelmo Damerini, scrisse incredibilmente su la Nazione, in occasione della esecuzione della Suite op.25 suonata da Glenn Gould (17 novembre 1958):

Anche nella Suite op. 25, assai meno sconvolgente di certe altre dell’Autore, la chiarezza dell’esecuzione faceva sopportare quel susseguirsi di note, apparentemente caotiche e pur così calcolate, non tanto però da non far constatare che quei pezzi non avevano nulla a vedere con le settecentesche forme cui erano intitolate: e qualche sibilo la suite non se l’è risparmiato.

Su Schoenberg sì, ma su Glenn Gould pare che le cose non siano cambiate di molto negli ultimi anni su questo quotidiano, se si va a leggere l’articolo di Daniele Spini dell’11 aprile 1987 intitolato “Gould Musica e Zolfo – omaggio al pianista che scelse di non esistere”, dove quasi in fondo sintetizza:

Personalmente conosco pianisti assai più bravi e seri di Glenn Gould, e assai meno celebrati.

Sarebbe impietoso fare una antologia su ciò che è stato scritto intorno alla vita musicale negli anni; per esempio dal critico W.F. sempre su La Nazione a proposito di Anton Webern, fino quasi ad usare un tono insultante (15 novembre 1955):

Una polemica su W. sarebbe indubbiamente fuori moda. Vien soltanto fatto osservare […] che in fondo le rivoluzioni dei professori sono una cosa tanto triste e tanto inutile. Questi frammenti pulviscoli, evaporazioni di musica son tanto distillati che ne vien fuori il contrario di quello che l’Autore si proponeva, ovvero una colonna sonora per scene madri di un film commerciale.

D’altronde è anche interessante mettere l’accento sul fatto che da sempre l’inadeguatezza del rapporto tra didattica e vita musicale è stata macroscopica. Torniamo ad una testimonianza di Dallapiccola a proposito della ormai celebre prima esecuzione a Firenze del Pierrot Lunaire il 1 aprile 1924, diretta dall’autore:

Quella sera gli studenti del Conservatorio esibivano, con latina gaiezza, il regolamentare fischietto prima che l’esecuzione avesse inizio: il pubblico, dal canto suo, scalpitò, tumultuò, rise. Ma Giacomo Puccini, quella sera, non rideva. Ascoltava l’esecuzione con attenzione estrema, seguendo il testo sulla partitura e, alla fine del concerto, chiese a Casella l’onore di essere presentato a Schoenberg.4


In generale, si può dire che soprattutto in Toscana, in tutto l’arco del secondo Novecento, nella musica vi è stata la compresenza di due atteggiamenti inconciliabili: uno fortemente accademico e uno di radicale avanguardia. Inevitabilmente il primo ha creato grandi maestri e una piccola serie di allievi-epigoni molto meno significativi, anche se professionalmente molto solidi e a loro volta maestri ancora più circoscritti in formule e dogmatismi, di forte limitazione geografica. Il secondo atteggiamento, modernista e irriverente, ha creato figure irripetibili che nelle loro invenzioni a volte provocatorie hanno intessuto rapporti internazionali con le realtà coeve lontane dalla Toscana ma concettualmente adiacenti. Questi non sono stati maestri e di loro non esistono che sporadici sedicenti allievi, mentre l’ambiente nel quale si sono trovati a operare rimaneva fortemente conservatore e diffidente. E’ semplificatorio, ma queste sono le caratteristiche, e sono comuni anche ad altre zone geografiche d’Italia.
Inoltre, pur se non appare sempre a prima vista, la musica dal 1945 ad oggi in Toscana ha avuto un percorso molto più intenso e articolato di quanto si possa pensare, che ha prodotto una grande quantità di opere, nell’inevitabile dialogo con il retaggio storico e artistico che quasi ci sommerge da sempre; soltanto un sistematico ascolto a vasto raggio della produzione di quegli anni muterebbe molto il punto di osservazione e la valutazione dei fatti, quasi sicuramente confermando questo dato.
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Come maestri, due sono state le figure più significative in questo contesto tra il 1945 e il 1970: Dallapiccola e Lupi, ambedue docenti al Conservatorio di Firenze. Ma non si può tralasciare una serie di personalità artistiche quali Guido Guerrini, Antonio Veretti, e ancora indietro fino a Ildebrando Pizzetti. Va considerata nel contempo con particolare attenzione la figura di Vito Frazzi, che fu anche insegnante di Dallapiccola; ebbe una visione lungimirante e molto aperta dei linguaggi sperimentali e scrisse anche importanti composizioni che da molti decenni non hanno più avuto esecuzioni pubbliche.
Dallapiccola è ormai considerato con Goffredo Petrassi e Giacinto Scelsi la figura più importante tra i compositori nati nei primissimi anni del Novecento. Originario di un piccolo centro, Pisino d’Istria, figlio del Preside del Liceo locale, si trasferì a Firenze nel 1922 dove studiò pianoforte con Ernesto Consolo e composizione con Casiraghi, Barbieri e Frazzi. Cominciò una carriera concertistica in duo con il violinista Sandro Materassi e da subito si dedicò molto alla musica vocale. Dopo la prima esecuzione nel 1933 della Partita per orchestra e voce di soprano (Firenze, Teatro Comunale, direttore Vittorio Gui) scrisse opere come gli Inni per tre pianoforti, i Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane, per approdare nella seconda metà degli anni Trenta a composizioni dodecafoniche con le Tre Laudi per voce e orchestra da camera e la prima opera: Volo di notte, da Saint-Èxupéry. Dallapiccola ha avuto tra l’altro il grande merito di sdoganare nella prassi compositiva il sistema dodecafonico, insegnandola ai suoi allievi e costruendo un suo linguaggio che da una parte lo ascrive al grande fiume dei seguaci di Arnold Schoenberg, ma al tempo stesso, forte di una straordinaria tecnica contrappuntistica, lo rende assai originale sul piano della compresenza di linee espressive che recuperano una dimensione sonora inaudita. Fu esempio di grande impegno morale ponendo al centro di tutta la sua attività l’idea di libertà e di lotta contro i regimi totalitari con parole e suoni, componendo lavori come i Canti di Prigionia; rimane un importante documento di questa presenza la sua comunicazione La mia Protest-music al convegno L’esperienza della guerra e dell’impegno sociale nella musica e nelle arti che ebbe luogo a Firenze nel giugno del 1971. Nel periodo della seconda guerra mondiale scrisse il Piccolo Concerto per Muriel Couvreux, Marsia, balletto del quale fece anche una trascrizione, Tre Frammenti per pianoforte, la Sonatina Canonica, anch’essa per pianoforte, le Liriche Greche e una trascrizione del Ritorno di Ulisse in Patria di Monteverdi.
Nel 1948 portò a compimento l’opera Il Prigioniero, che è considerata forse tra i suoi lavori più importanti per il teatro. Rencesvals per baritono e pianoforte e le Quattro Liriche di Antonio Machado precedono la fertile stagione produttiva degli anni Cinquanta, con le Due Tartiniane, il Quaderno Musicale di Annalibera, i Goethe-Lieder, la Piccola Musica Notturna e altre importantissime composizioni che formano un lungo elenco. Nell’arco degli anni Sessanta scrive la sua opera più impegnativa, l’Ulisse, lavoro di grande respiro che sarà terminato nel 1968.
Negli ultimi anni che precedono la sua scomparsa nel 1975, Dallapiccola lavorò ancora a composizioni vocali come Three Questions with two Answers, le Parole di San Paolo, Sicut Umbra…, ed infine il lavoro corale in due parti Tempus destruendi/Tempus aedificandi e Commiato, sempre per voce femminile e complessi vari da camera.
Non è quindi azzardato affermare che in Toscana Dallapiccola sia stato davvero il compositore più importante di quei decenni, con un respiro che lo rendeva unico nella scena internazionale, avendo egli affrontato grandi temi dello sviluppo di una musica nuova con sintesi estremamente fertili e ancora non ben comprese dal punto di vista musicologico, come per esempio l’intuizione, forse non del tutto sua ma solo da lui ben configurata, di una polarità di certe relazioni intervallari5
che crea una linea di comprensibilità nella struttura dodecafonica-seriale, o l’illuminante saggio Parola e musica nel melodramma6, testo di una conferenza tenuta in varie sedi negli anni Sessanta, dove si tentava una storia della formulazione di topoi espressivi individuati in sintesi tra testo e frammenti sonori.
La vivacità di interessi che lo contraddistinse gli permise di spaziare in molti campi, dal cinema alla amata letteratura, e colpisce molto l’acutezza di riferimenti e la fertile prospettiva di transcodifica tra prassi compositiva e narratività in letteratura, da quanto scriveva nel saggio Sulla strada della dodecafonia:

I miei primi contatti con due grandi scrittori, James Joyce e Marcel Proust, datano a quest’epoca [circa il 1935].
Ed è a questi scrittori che, in mancanza di trattati sulla musica dodecafonica e di tanti altri testi che non potei procurarmi, debbo di aver trovato conferma di quanto avevo oscuramente presentito dopo l’audizione delle opere di Schoenberg e Webern7.

Naturalmente una così forte personalità si era formata su convincimenti così profondi che gli permettevano anche di eliminare prudenze nell’esprimere giudizi che gli sarebbero apparse come delle ipocrisie; non faceva mistero per esempio delle sue remore nei confronti di Stravinsky, come in una lettera a Sylvano Bussotti del 13 agosto 1950:

Oggi, che abbiamo a disposizione tutti e dodici i suoni della scala cromatica temperata, finalmente liberati, mi sembra logico che si ricominci un’altra volta daccapo. Cioè con la melodia. Busoni già sosteneva che l’avvenire della musica spetta alla melodia (ma forse il suo era un desiderio; forse una intuizione di grande uomo); Stravinsky, dal suo canto, vuol pure rivalutare la melodia: ne parla tante e tante volte in quella pietosa “Poétique Musicale”…. Ma lo Stravinsky potrà continuare a spremersi le meningi sino a che vorrà: di melodie non ne trova. Che non abbia capito che il mondo diatonico è completamente vuotato? D’altro canto egli si è troppo compromesso con i dodecafonici per poter osare, alla sua età e col suo nome, delle esperienze nel “nostro” senso. Imparino coloro che si buttano con troppo impeto sui nemici. E, contemporaneamente allo studio, alla ricerca della melodia nuova, oggi assistiamo al “nuovo contrappunto”. L’armonia sorgerà quando Dio vorrà, quando altre cose saranno maturate. E’ il M° Vito Frazzi che ritiene l’armonia principio e fine dell’universo. O che Giovanni Papini, detto l’Omo Salvatico, non ha scritto di quel tale accordo voluto da Dio (ne parla come se lo conoscesse benissimo: l’accordo, dico. Perché che ne abbia rapporti col Padreterno lo sappiamo da tempo tutti, a parte che se ne sia più o meno convinti!) e che il Frazzi sarebbe sulla via di trovare, non volendo scrivere che l’abbia già trovato e in saccoccia, pronto a estrarlo, per la confusione de’ superbi???
Buona estate, buon lavoro. Con tutta cordialità, tuo aff.mo Luigi Dallapiccola8

Siamo nel 1950, e col senno di poi sappiamo che Stravinsky l’esperienza della dodecafonia l’avrebbe percorsa anni dopo: l’umore pungente e scherzoso di questa lettera però disegna bene anche un clima estremamente vivo nel quale la circolazione delle idee aveva poche remore.
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Ben diversa ma altrettanto significativa sul piano internazionale è la figura di Roberto Lupi, che fu anche formidabile direttore d’orchestra (ebbi la fortuna di ascoltare sia il grande pianista Dallapiccola, sia il grande direttore Lupi e l’enorme impressione permane nella mia memoria al di là di quella che può essere stata una ammirazione adolescenziale).
Nato a Milano nel 1908, si diplomò in pianoforte, violoncello e composizione al Conservatorio Verdi, poi si trasferì a Firenze dove insegnò composizione al Cherubini. Fino al 1946 ebbe una importante carriera di direttore d’orchestra e attese a profondi studi che lo portarono a formulare un edificio compositivo assai originale, basato sulla riformulazione armonica e contrappuntistica secondo leggi che centrifugavano dalla tonalità, originate da criteri modali e di interpolazione al confine del metasonoro, vicino alle teorie di Rudolf Steiner, dalle quali Lupi fu così preso che divenne a sua volta discepolo e maestro di antroposofia. Nel 1950 vinse con la cantata Orpheus il premio Roma per la Musica e da allora le sue composizioni furono eseguite spesso nel Maggio Musicale e nelle più importanti istituzioni concertistiche italiane.
In lui era molto forte anche la spinta verso un teatro misterico, che legasse le espressioni sonore con quelle visuali e in generale del movimento corporeo; si ricordi per esempio la Danza di Salomé (Maggio Musicale 1960), che fondeva musica, colori, luci e movimenti scenici, oppure La Nuova Euridice, Mistero melodrammatico (1957).
Nel lungo elenco delle sue composizioni è da rilevare anche il continuo interesse per i grandi organici orchestrali, come Sacra Sinfonia (1946) per soli coro e orchestra, Azioni Sonore (1962) per orchestra, ma anche dimensioni sonore sperimentali come Archetipi (1961) per voce recitante, risonanze vocaliche interne, voci cantanti interne e strumenti, su testi di M. Della Quercia e Misteri, per voce recitante, coro parlato e orchestra.
Giancarlo Cardini ricordava Lupi nel programma della Estate Fiesolana del 1992 con queste parole:

Firenze, primi anni Sessanta. Presenza carismatica di Roberto Lupi. Una figura tra lo ierofante e il mago. Così almeno mi appariva.
Entrai nel reame dei misteri, e vi rimasi, non senza contrasti, per una decina d’anni. Il mondo gravitava per me tra l’Erta Canina, dove c’era l’abitazione di Lupi, e Dornach, la sede centrale della Società Antroposofica.
Verso la fine degli anni Sessanta, comunque, il mio distacco dall’ortodossia antroposofica si faceva sempre più marcato, anche per causa dei miei crescenti sodalizi con le avanguardie storiche del momento. Lupi era invece invulnerabile: per lui, al contrario di me, l’arte non si poteva separare dalla spiritualità, dai contenuti metafisici, dalla morale. Questa intransigenza lo portava a dividere il mondo in due: i possessori della verità, gli antroposofi, e gli altri, l’umanità ordinaria schiava degli idola materialistici e preda inconscia dei demoni del male.
Nella musica, Lupi propugnava uno stile alto e severo: il suo, appunto, che riconquistasse l’uomo attraverso l’arte, la coscienza cosmica, l’armonicità, l’attitudine meditativa.
Il Novecento era sentito infatti come una perdita del centro, e una dispersione dei regni inferiori dell’intellettualismo (le speculazioni seriali), della nuova barbarie (il sopravvento del ritmo, la meccanizzazione), della decadenza sentimentale (propaggini del puccinismo, la musica leggera).

Queste parole di Cardini gettano una luce su che tipo di coercizione culturale e artistica implicava lo studiare composizione con docenti legati al rigore di una disciplina mentale del genere. Ricordo nei primi anni Sessanta al Conservatorio di Firenze una rappresentazione di Euritmia, una sorta di rito nel quale molti allievi di Lupi e altri simpatizzanti si produssero in una meditata coreografia. Mi parve come uno psicodramma nel quale ognuno scioglieva il proprio comportamento nella estetica del gesto, per una danza spontanea probabilmente rigeneratrice per chi vi partecipava.
Leggere oggi tante affermazioni di Lupi fa pensare ad una visione dell’arte affidata ad una sensibilità e una intuizione metafisica, fuori dal tempo, dall’attualità, ma anche da atteggiamenti storicistici evolutivi. In Il libro segreto di un musicista, si trovano due o tre affermazioni che fanno capire anche quale difficile convivenza si creasse tra mondi lontani, se si pensa a all’esperienza coeva di Grossi e si legge:

La musica prodotta da apparecchiature elettroniche è completamente avulsa dalla realtà musicale. È menzogna che uccide la possibilità di sguardo verso il futuro, poiché il ritmo, che è proiezione verso il futuro e attività di amore, viene in tal modo completamente eliminato. Il suono elettrico è il suono dell’attuale “presenza sonora”. Infatti nella musica elettrica o elettronica, fra suono e suono non esiste nessuna particolare tensione; vi sono solo dei vuoti che nulla hanno a che vedere con tensioni intervalliche o pause d’accento. Non esistono forze propulsive umane ma suoni separati uno dall’altro che ci colpiscono come frecce meccanicamente emanate. È una presenza sonora che di volta in volta si manifesta come un triste annuncio di un futuro allucinante.
È il
suono antiarte, in quanto si adatta sia all’arredamento sonoro che alla musica politicizzante del nostro tempo9.

Questo nel 1971, dopo tutto quello che stava avvenendo nel mondo.
Forte era l’influsso che questi maestri avevano sulla vita musicale fiorentina, quindi Toscana, dato che a parte l’Accademia Chigiana di Siena poco altro poteva essere considerato una realtà produttiva nella regione, e ciò spiega la lentezza con la quale si evolveva il pensiero musicale in quegli anni.
Ambedue questi maestri ebbero un costante impegno didattico che nel caso di Lupi fu circostanziato anche dalla stesura di scritti teorici come Armonia di Gravitazione, per il quale Alfredo Casella scrisse una brevissima prefazione che vale la pena di leggere, per avere un’idea delle problematiche nelle quali venivano a trovarsi i compositori in quel momento:

Il vecchio mondo sociale crolla, e l’umanità cerca affannosamente di costruire un ordine, da sostituire a quello scomparso. Codesta gigantesca crisi ha un preciso riflesso anche nell’arte e soprattutto nella musica, dove l’evoluzione dell’ultimo mezzo secolo ha determinato a poco a poco il crollo di quel sistema armonico che aveva sorretto la nostra arte per quattro secoli e che oggi appare irrimediabilmente superato. Le vecchie leggi sono praticamente scomparse e faticosamente se ne elaborano delle altre, come ad es. la dodecafonia. Nel presente caos, ogni parola di buon senso, che abbia per iscopo di contribuire – chiarificando le idee – e porre ordine in una situazione eminentemente confusa, sarà la benvenuta. E pertanto non si può negare ogni simpatia e il dovuto alto interesse alla nuova teoria esposta da Roberto Lupi in questo opuscolo, che rappresenta – unitamente ai lavori teorici di Paul Hindemith – uno fra i pochissimi contributi attuali veramente validi all’edificazione di quel “ponte” che noi tutti cerchiamo di gettare sull’abisso che separa la musica di ieri da quella di domani.10


Dallapiccola si trovava certamente allineato sulle stesse istanze, ma il suo approfondimento risulta ben più esteso alle svariate problematiche in atto, con interpretazioni e risoluzioni assai importanti, costantemente in lotta contro i totalitarismi, ed ebbe la capacità di trasferire tutto questo anche sul piano della didattica.
Infatti dalla sua scuola vennero fuori una serie di allievi che furono ben convinti di intraprendere una strada maestra nella quale il lavoro sulla forma era come una sfida ai labirinti di senso che le nuove tecniche compositive mettevano in atto. Però era molto difficile ristabilire il nesso con la portata antropologica e culturale insito in queste tecniche, reciso in tutto il ventennio fascista da una aulicità e uno storicismo che aveva gravato molto sull’immaginario collettivo. Soltanto questi due maestri, musicisti dalla profonda cultura e sensibilità, che avevano passato le vicissitudini totalitarie con un forte atteggiamento di contrapposizione e una continua istanza di informazione su ciò che accadeva al di fuori del clima autarchico, potevano decantare le spinte espressive efficaci in un humus di accademismo11
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Alcuni allievi di Dallapiccola dettero vita, nel 1954, alla Schola Fiorentina, così raccontata da Arrigo Benvenuti:
Verso il novembre del 1954 nacque la Schola Fiorentina, in seguito a rapporti di amicizia e culturali tra me, Bruno Bartolozzi, Sylvano Bussotti, Alvaro Company, Carlo Prosperi e Reginald Smith-Brindle.
Eravamo tutti allievi di Luigi Dallapiccola e ci legava una comunità di intenti, spesso con un po’ di ambizione e di ingenuità, come si addice a questi patti di alleanza.
La prima riunione fu una seduta fotografica che si svolse in piazza Indipendenza, alla quale seguì il disegno di Sylvano Bussotti che riunì insieme tutti i ritratti. Storicizzata l’immagine, fu deciso che era il momento di conoscere l’opinione del nostro maestro.
Dallapiccola mi dette appuntamento dal dentista o, meglio, mi chiese se potevo andare a prendergli il posto mezz’ora prima dell’apertura dello studio, i dentisti non concedevano appuntamenti così precisi come oggi e si doveva perdere tempo ad aspettare: quella volta egli guadagnò tempo prima e dopo mandando il sottoscitto a fare la fila…
Fu una cosa simpatica e per niente influenzata dalle grida dei pazienti perché si poté parlare con calma sul pianerottolo. L’idea della nostra Schola gli piacque moltissimo, al punto di auspicare che fosse nato un nuovo “Gruppo dei Sei”.
Noi condividevamo gli intenti morali e una spinta innovatrice, ma con un’assoluta autonomia di ricerca, come poi si è dimostrato con le diverse personalità di ciascuno proprio un po’ come nel “Gruppo dei Sei”. Si deve pensare a che cosa era la situazione italiana nel 1954, in una realtà post-bellica: eravamo molto disinformati di ciò che succedeva nel resto del mondo, per cui l’unica fonte di conoscenza era poi data proprio da Dallapiccola12
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Anche queste parole danno la dimensione della gerarchia culturale pur legata da profonda umanità che intesseva i rapporti tra le due figure di spicco, presenti nella vita concertistica del Teatro, e i numerosi allievi, orientati didatticamente ma disorientati culturalmente da scarse letture e da non sufficienti informazioni dirette su ciò che accadeva nel resto del mondo.
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Negli anni Sessanta una rivista fiorentina di grande interesse e spessore musicologico è stata Disclub, nata per volontà di Giorgio Venturi intorno all’omonimo negozio di dischi che allora aveva sede in Piazza San Marco. Il comitato di redazione era formato da Dallapiccola, Bucchi, Gianandrea Gavazzeni, Vlad e altri. Uscì dall’ottobre 1963 al dicembre 1969, con oltre trenta numeri dedicati alla musica di tutte le epoche, con speciale attenzione al Novecento, e anche con articoli sul jazz in ogni fascicolo. Dallapiccola apriva il primo numero con un articolo Incontro con Anton Webern, pagine di diario (chissà se poi un giorno verrà stampato un volume con tutti i suoi diari), che chiudeva con la dedica a Webern dei suoi Sex Carmina Alcaei che mai poté portargli a guerra finita.
Va ricordato anche Valentino Bucchi, che nel 1974 si trovò per un breve periodo, prima della sua scomparsa, a dirigere il Conservatorio di Firenze. Bucchi era fiorentino e fu allievo di Dallapiccola, producendosi anche come critico di quotidiani, organizzatore, autore di colonne sonore ed altro, ma verso la fine degli anni Cinquanta abbandonò tutto e si concentrò sulla composizione con particolare attenzione al teatro. La sua opera più rappresentata rimane Il coccodrillo (1969-70).
In questo ambiente le figure di Benvenuti e di Bussotti apparvero subito quelle di maggior respiro: ambedue con una grande propensione per il teatro musicale, ambedue passati attraverso l’esperienza della dodecafonia senza rimanere impigliati in rigide formulazioni.
Arrigo Benvenuti unì da subito l’interesse fortissimo per la tecnica dei dodici suoni, che lo portò sulla soglia della musica aleatoria come zona di mobilità all’interno di una sintassi ben definita quale progetto compositivo, con la dimensione di un teatro sperimentale: suono e gesto si trovavano così ad essere ben delineati concedendo episodicamente limitate libertà dell’alea alla esecuzione estemporanea.
Anche la sua musica oggi viene eseguita rarissimamente, un po’ per una ingiusta rimozione, un po’ perché molti dei suoi lavori sono di complessa realizzazione, come quelli scritti per grossi organici orchestrali, anche con soli e coro, con strumenti solisti e con musica elettronica, come Canoni Enigmatici (1959), Alea (1960), Polymerie (1962), Omaggio a S2 FM (1966), Et inquietum est cor nostrum (1977) etc.; per il teatro Night Club, spettacolo con musica (1979-81) è forse l’unico “spettacolo con musica” che ha avuto una esecuzione. Benvenuti lo aveva definito Teatro musicale “totale” – opera socchiusa, per alludere alla dialettica tra chiusura umanistica e apertura anarcoide.13
Un compositore molto interessante fu poi Bruno Bartolozzi, la cui frequentazione di Dallapiccola lo portò alla tecnica dodecafonica, ma che dal 1960 in poi sviluppò ricerche timbriche nuove, elaborando un linguaggio di estrema raffinatezza e originalità; di lui rimane fondamentale la trattazione teorica e pratica dei suoni multipli per gli strumenti a fiato, New Sounds for Woodwinds, pubblicato nel 1967 dalla Oxford University Press.
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Nella lettura storica di quegli anni assume un ruolo importantissimo Pietro Grossi che divenne agli inizi degli anni Sessanta un pioniere della musica elettronica in Italia. Violoncellista e compositore, Grossi è nato a Venezia nel 1917 ed è stato per quasi trenta annni primo violoncello dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, alternando a questo impegno il lavoro di concertista e di didatta, scrivendo anche molte composizioni per organici vari che si caratterizzano per il personalissimo lavoro sulle micro-timbriche, come i Due Quartetti per archi (1960), quasi una anticipazione di quell’interesse che lo portò per primo a indagare sulla sintesi elettroacustica del suono.
Grossi ebbe il grande merito di essere molto aperto alle esperienze anche le più antiaccademiche e favorì la nascita di una fronda radicale, di una possibilità di espressione avanguardistica all’interno dell’ambiente del Conservatorio di Firenze. Nella prefazione al libro L’Istante Zero, Conversazioni e riflessioni con Pietro Grossi, di Francesco Giomi e Marco Ligabue (Firenze 1999, Sismel Edizioni del Galluzzo), Clemente Terni, musicista coetaneo e amico di Grossi, osserva:

Dovendomi limitare all’azione comparativa locale – lo storico indagherà ad ampio raggio – mi domando: cosa rappresenta Pietro Grossi nel mondo musicale fiorentino a lui contemporaneo? Quello di Luigi Dallapiccola, Vito Frazzi, Roberto Lupi, Ugalberto De Angelis, Bruno Bartolozzi e Carlo Prosperi. La risposta è: la sua atipicità nel divenire. È un musicista della dialettica attuale, ma anche il riflesso di tutte le grandi vicende dell’evento musicale.

Verso la fine del 1960 Grossi costituì l’associazione Vita Musicale Contemporanea, che ebbe un ruolo fondamentale nella conoscenza della nuova musica in Italia, ospitando in modo aperto e pluralista un grande panorama di quella che era la creatività più spinta a livello internazionale. Questa nuova associazione fu formata con il fisico Giuliano Toraldo di Francia come Presidente, e vi figuravano tra gli altri Giuseppe Chiari, Luciano Alberti, oltre alla adesione di Bruno Bartoletti, Ettore Bastianini, Alvaro Company, Luigi Dallapiccola, Gaspar Cassadò etc., e fu appoggiata dall’allora Direttore del Conservatorio Antonio Veretti, impegnato in sperimentazioni compositive che sviluppavano strutture dodecafoniche.
Questo favorì l’accrescersi di una tendenza radicale nella quale l’invenzione e l’acculturazione selvaggia furono una nuova linea parallela a quella accademica, favorita anche dalla grande apertura mentale su fatti a loro estranei che sia Dallapiccola che Lupi osservarono con una partecipazione costante, sicuri di non intaccare mai le loro solide dottrine.
La presenza di Giuseppe Chiari fu un’ulteriore scintilla che maturò l’incendiarsi dell’atteggiamento radicale, pre-concettuale, che correva parallelo alle coeve esperienze nel campo della poesia visiva, sonora e concreta, nel campo della architettura, con gruppi radicali tra i quali Superstudio, Ufo, Archizoom, in una prospettiva che vedeva arrivare anche nella Firenze della grande tradizione rinascimentale i primi movimenti studenteschi che portarono al sessantotto. L’incrocio fu naturalmente anche con le arti visive, con i pittori che allora facevano capo alla Galleria L’Indiano, la Galleria Numero, con il gruppo del MAC (Movimento Arte Concreta), il Gruppo Forma, il Gruppo Arte Oggi: insomma quelle situazioni che tentavano nuove strade con collegamenti internazionali più o meno risolti e fecondi.
Proprio la collisione tra tradizioni così dense in questa città e la spinta verso una modernità senza confini furono lo scontro di opposte tendenze che fece crescere un processo metalinguistico sull’atto creativo, sull’uso stesso delle materie della propria disciplina, sui prestiti e gli sconfinamenti, le contaminazioni: un atteggiamento concettuale che partì proprio da Firenze.
Il vivaio di Vita Musicale Contemporanea fu attentamente osservato da chi era alla guida del Teatro Comunale che di volta in volta programmava alcuni lavori sia dei maestri, sia più raramente di qualche promettente giovane ex allievo. I concerti di questa importante associazione si susseguirono per sette anni, in un momento storico nel quale pareva farsi acuto l’interesse nei confronti del nuovo in musica, tanto che nel 1964 l’allora direttore artistico del Teatro Comunale, Roman Vlad, riuscì dopo alcune trasmissioni televisive di divulgazione della musica dodecafonica – Specchio Sonoro – a realizzare un Maggio Musicale Espressionista, grande festival a tema che fece storia nel mondo musicale europeo. Si creò un importante momento di informazione, preciso ed organico, sulle vicissitudini della musica dodecafonica, da Schoenberg a Berg, Webern, Krenek etc.: quella musica che i nazisti avevano definito degenerata, adesso contestualizzata dentro la cultura nella quale Ferruccio Busoni aveva scritto il Dottor Faust.
Guarda caso, però, questo coincise anche con un momento di grossa crisi della gestione del Teatro e l’audacia del programma scatenò una violenta polemica creando una forte chiusura che durò per alcuni anni a venire.
La spinta centrifuga di alcuni musicisti verso la visualità, con un atteggiamento metalinguistico, si avvaleva anche di collegamenti internazionali, come l’appartenenza di Chiari al gruppo Fluxus di New York. Altri fattori importanti entrarono in gioco, non ultimo il concerto di John Cage a Firenze nel 1959, alla Società Leonardo da Vinci, luogo onorato dalla presenza di gentili persone della terza età, che ascoltarono le sue composizioni per pianoforte, con la collaborazione di un secondo pianista, che era Luciano Berio, provocando reazioni divertite più che scandalizzate o allarmate, ma iniettando in alcuni spiriti vivaci un processo irreversibile di mutazione di concetti, fino ad allora ritenuti fondamentali, e contribuendo ad una spaccatura manichea tra modernismo e tradizione che non si sarebbe più sanata. Cage è venuto altre volte a Firenze, e si ricordi forse la più significativa che è stata anche l’ultima, per il concerto a lui dedicato dal G.A.M.O., un mese prima della sua scomparsa, nel giugno 1992, al Conservatorio di Firenze.
In Musica e Oggetto Giuseppe Chiari diceva:

C’ è oggi, oltre alla possibilità, la necessità, direi, di non credere in uno specifico Musicale. Il musicista vuole affrontare tutti gli argomenti. Per fare questo egli sceglie e utilizza qualsiasi oggetto veda intorno a sé.
E’ stata dunque abbandonata la dimensione cameristica e concertistica non per uno spirito innovatore-scandalistico fine a sé stesso, ma perché questa – sia nelle forme tecniche, che in quelle strutturali – implicava sempre una concezione di musica pura, assoluta, che impediva di estrovertere ogni tipo di impegno. Per la stessa ragione si adotta la tecnica della contaminazione, irrelando il suono con la parola, col gesto, col colore, coi fatti comuni e si ottengono opere dispersive, che il pubblico non può sintetizzzare e che lo costringono in qualsiasi modo ad una partecipazione non più contemplativa ma attiva, polemica magari.
Opere che, in ogni caso, riaprono un discorso sugli “oggetti”, abbandonato da troppo tempo.14

La ragione dello scontro tra una visione fortemente sperimentale e un’altra che sottendeva un processo evolutivo non eversivo era proprio questa scelta operativa non più basata sulla produzione di composizioni, bensì sul progetto di portare la musica su un piano metalinguistico nel quale interagivano componenti extrasonore, con le quali la scrittura, la notazione musicale, era in stretta relazione.
Si ebbe in quel momento l’esposizione realizzata nel 1963 da Bussotti e Chiari sulla grafia musicale: Musica e Segno, che estendeva il possibile orlo tra suono e segno laddove già Bussotti aveva collocato le sue Pittografie.
Nasceva una Musica d’Arte, che spaziava in una zona intermedia quasi a collocarsi in palcoscenici di un teatro interiore, impossibile, ma denso di una spiritualità che per altre strade rispondeva alle istanze profonde di sperimentare percezione, memoria, azione, rappresentazione. Entrava in gioco una interazione tra segno, gesto, suono e visione che faceva della musica una utopia, qualche cosa di più complesso di un semplice ascolto di forme udibili. Questo modo di pensare una nuova musica è stato un fenomeno assolutamente fiorentino; in nessun’altra parte del mondo c’è stata una così densa concentrazione di esperienze artistiche che intrecciassero in quegli anni questa tendenza alla interazione di segno, gesto e suono, in un’epoca che certamente non offriva ciò che oggi le nuove tecnologie spettacolari rendono quasi a portata di mano.
E’ forse uno stupore da fanciullo pascoliano rimirare un segno e farne suono con il pensiero e/o fare segno dall’incanto della vibrazione sonora con l’immaginazione? Se la musica è forma, la materia sonora è un mezzo, con i suoi requisiti di fascino, elemento costitutivo di un edificio nel quale il ritmo, quindi lo scorrimento temporale, sono la statica (o la dinamica…).
Il gesto provocatorio di certe avanguardie ha negato questa forma, a volte sformandola, o dilatandola, concentrando una nuova attenzione sulla materia sonora e sul gesto che la producono, o sul segno che indica sempre più visualmente l’azione da compiere per produrlo. Il passaggio dal tempo allo spazio ha coinciso con la deflagrazione, la frammentazione sospesa, bloccata.
I futuristi per primi, creando immagini pittoriche e scultoree della sensazione del movimento delle forme, hanno creato degli attimi fermi come l’occhio del ciclone. E’ agli inizi del Novecento, con le Tavole Parolibere di Filippo Tommaso Marinetti, che si sono create le premesse della mappatura di istantanee sonore, e a Firenze il legame con queste esperienze fu stretto, tramite artisti come Primo Conti, Ottone Rosai etc. e riviste come Lacerba e L’Italia Futurista. In fondo le prime Pittografie di Bussotti e le scritte di Chiari vedono la luce non tanto tempo dopo e il filo con gli artisti delle prime avanguardie storiche era diretto.
In ordine di anagrafe sono stati sei i musicisti ascrivibili ad una Musica d’Arte.
Il primo è Pietro Grossi, la cui fede e passione nel progresso tecnologico lo ha visto con una costante attenzione al nuovo, alla modernità che avanza attraverso il progresso scientifico e tecnologico. Tale propensione ha fatto di Grossi l’animatore dello Studio di Fonologia S2 FM presso il Conservatorio di Firenze, nel quale ha insegnato a nuove generazioni di musicisti ed artisti le possibilità che venivano offerte dall’elettronica.
La programmazione delle attività dello Studio era molto innovativa perché era assunto come progetto che ogni opera potesse essere usata come materiale di base per altre elaborazioni, sia dallo stesso autore che da altri, trasferendo sulla attività collettiva il proprio contributo personale. Dando una occhiata a quali erano gli allievi di questo corso troviamo sia compositori come Vittorio Gelmetti, Albert Mayr, John Phetteplace, Giuseppe Chiari e Franco Befani, sia artisti come Maurizio Nannucci e Auro Lecci; la cosa creava anche prospettive di nuovi spazi di ascolto e di visione.
Grossi si collegò con molti studi di fonologia analoghi, come quello di Gand (Ipem), Parigi (RTF), Colonia (WDR), Monaco (Siemens), Tokio (NHK), Varsavia (Polskie Radio), New York (Columbia Princetown) e Milano (RAI); nello svilupparsi della computer music proseguì poi il suo lavoro anche al CNUCE presso l’Università di Pisa. La valanga di attività che lo hanno visto impegnato - e si ricordi ancora l’importanza storica per Firenze dei concerti di Vita Musicale Contemporanea dal 1961 al 1967 - fanno di lui il compositore più futurista nel senso dell’atteggiamento fortemente estetizzante nei confronti della modernità e, attraverso la Home Art e altre sue realizzazioni, un artista concettuale le cui affermazioni ed utopie rimangono sentieri tracciati, future segnaletiche sulle quali è passata tanta esperienza musicale successiva.
Giuseppe Chiari, nato a Firenze nel 1926, attraversa la musica e la musicologia con uno sguardo obliquo che lo porta a scrivere già dal 1950 delle musiche minimali e compiere performances che, da Gesti sul piano e La strada, sono state la realizzazione di scritture di azione che non dovevano più tenere conto delle modalità che storicamente il pianoforte ha instaurato, considerando la tastiera come una striscia di sabbia sulla quale disegnare appunto dei movimenti, dei gesti. Dal punto di vista musicologico ha scritto molte confutazioni a teorie che sono oggi nella musicologia ufficiale degli assunti storicizzati, ed ha scritto moltissimi pensieri, considerazioni, utopie, proposte con frasi semplici, esprimendo concetti che a volte suonano assai provocatori, come lo storico L’arte è facile alla Biennale di Venezia del 1972. Per Chiari la musica può essere di quattro tipi in relazione alla dimensione in cui si realizza: da strada, da fortezza, da chiesa e da palazzo. Anche in questa scansione degli spazi nei quali farla esistere, Chiari rivela una sempre costante attenzione ai processi comunicativi in modo da approfondire la sensibilità dell’atto stesso di produzione e dell’entità che il suono viene ad assumere, oltre alla sua comunicabilità.
La sua lunga e complessa attività, collegata direttamente al gruppo Fluxus fin dai primi anni Sessanta, è oggi testimoniata da una grande quantità di opere grafiche, pagine di musica, scritte, disegni etc. che lo rendono presente nella scena artistica internazionale, mentre le sue cose eseguibili annoverano scarsissime occasioni d’ascolto; eppure, tutta la fase minimale degli anni Cinquanta precorre almeno di dieci anni i primi compositori Minimalisti americani.
Sylvano Bussotti, fiorentino, è nato nel 1931 ed è diventato celebre in tutto il mondo per la complessa dimensione teatrale nella quale la sua musica, le notazioni pittografiche, il modo di concepire lo spazio scenico, i costumi, le coreografie, hanno condotto ad una irripetibile esperienza che sviluppa un’arte totale ben definita da Mario Bortolotto in Fase Seconda (Torino, 1969, Einaudi, pag. 201):

Se vi è, fra i compositori della Nuova Musica, che pare incarnarne i discordanti e sottaciuti appelli: inesausta passione ostentatoria e strabiliante sincerità espressiva, intrepida vorace ricerca di originalità e culto aristocratico della forma, nostalgia di tutte le abbandonate maniere del far musica e curiosità di ogni più legittimo (e illegittimo) futuro; quel compositore è senza dubbio il fiorentino Sylvano Bussotti.

Allievo di violino di Gioacchino Maglioni, di Lupi e Dallapiccola, successivamente di Max Deutsch a Parigi, Bussotti ha proseguito autodidatta gli studi a causa della guerra ed ha poi svolto il suo complesso lavoro di compositore, regista teatrale, scenografo, costumista e attore, in varie parti del mondo, realizzando una delle sintesi più affascinanti tra il suono e la dimensione teatrale. Lavori come Passion Selon Sade, mistero da camera (1965), Lorenzaccio, melodramma romantico (1972), Bergkristall, balletto (1973), Nottetempo, dramma lirico (1976), etc. rimarranno come capisaldi del nuovo teatro novecentesco, tra il magico e l’erotico, fino al recente Tieste (2000), dove egli stesso si coinvolge nell’azione teatrale quale straordinario performer.
La caratteristica che fa della sua creatività un fenomeno unico è l’organicità di un pensiero che lega ogni singolo elemento della dimensione teatrale, dal suono alle luci, attraverso una capacità di sintesi e di semiosi che va dalle prime affascinanti pittografie dei Piano Pieces for David Tudor fino ai complessi progetti operistici dove sono disegnati costumi, siparietti, fino ai più piccoli dettagli. Da Torso (1960-61) per voci e orchestra ai Semi di Gramsci (1967) per quartetto e orchestra, a Lorenzaccio (1972), melodramma romantico, a Il Potente, melodramma del 1979 alle produzioni più recenti , la sua produzione presenta una continua invenzione la cui cifra è questo continuo dominio che lo ha portato schoenberghianamente anche a fare musica con i mezzi della scena.
Giancarlo Cardini è nato a Querceto, Lucca nel 1940 ed ha studiato pianoforte a Firenze con Rosati e poi con Pietro Scarpini; ha collaborato in varie performances sia con Bussotti che con Chiari, e come loro ha sviluppato una tendenza alla teatralità estetizzante che si è espressa sia con opere per pianoforte che con notazioni verbali, azioni mixed media di musica gestuale e neo-haiku theathre, intrecciando un originalissimo sapore neo-dada alla sensibilità di stimolare alla percezione più acuta dei microfenomeni del quotidiano.
Venendo anch’egli da una frequentazione della scuola di Lupi, nella sua visione artistica si possono riconoscere tracce indirette delle teorie Steineriane, raffinate sublimazioni di gesti e suoni che fanno della azione sulla scena un momento catartico; appunto, fortemente rituale ed estetizzante. È autore dell’opera, Il Castello Insonne, mistero scenico notturno in 29 episodi, che fu rappresentata alla Biennale Musica di Venezia nel 1991, stesura definitiva di una precedente versione, realizzata con vari musicisti, tra gli altri anche Sylvano Bussotti, a Genazzano (BussottiOperaBallet, “Feste d’estate 1985”).
Cardini, dopo una lunga attività di esecutore di un vastissimo repertorio di musica contemporanea oltre che di performer dei suoi lavori come per esempio Guazzabuglio, da qualche anno ha sempre più rivolto la sua attenzione a repertori memoriali. Da un decadentismo tardo ottocentesco (d’après Bruckner) si è dedicato in questi ultimi anni ad arrangiamenti di canzoni di Umberto Bindi, Luigi Tenco etc., inseguendo un recupero del suo privato immaginario adolescenziale.
Albert Mayr, nato a Bolzano nel 1943, ha collaborato per cinque anni con Pietro Grossi nello studio S2 FM ed ha poi passato lunghi periodi in Canada, in stretto rapporto con i musicisti della soundscape composition (R.Murray Schafer, Barry Truax etc.). Ha insegnato Musica Elettronica dopo Grossi al Conservatorio di Firenze ed ha lavorato sul tempo come scorrimento, come segmentazione, costruendo performances più o meno guidate da notazioni ed eventi, che rimettono in gioco continuamente la dialettica tra volontà e osservazione della realtà casuale. Membro della International Society for the Study of Time ha indirizzato la sua ricerca anche sulla dimensione del rapporto suono-ambiente, con un impegno civile molto forte, che si è espresso anche con i suoi interventi musicali negli anni Settanta con pazienti dell’ospedale psichiatrico di Volterra.
Per quanto mi riguarda, nato nel 1946 a Firenze, ho studiato pianoforte con Rio Nardi e autodidatta la composizione; la doppia formazione di studi musicali e artistici mi portò da sempre a considerare il rapporto segno-gesto-suono come il luogo d’origine di una energia creativa: dalle Notazioni di fatti sonori che l’esecutore ricrea nella propria immaginazione (Autunno Musicale di Como, 1972), dove la contemplazione di opere visive era completamente avulsa dal suono, a lavori sinfonici solo da ascoltare come le Due Sinfonie per 21 Pianoforti (Firenze 1987, Paris 1995,) a opere come L’ora Alata (Celle, 1993), nella quale segno gesto e suono si intrecciano indissolubilmente, alla ambient music per la quale ero fortemente suggestionato da luoghi della Toscana (Capalbio, (1977), Grande Notturno a Gargonza (1982).
Lo studio dei processi di semiosi musicale che mi portò a varie mostre e concerti pianistici sul tema della grafia e del rapporto che questa stabilisce nel processo di comunicazione, si è unito all’interesse per le avanguardie storiche dei primi del Novecento, dal Futurismo in poi, per le sintesi di spazio-tempo che da allora hanno gettato ponti invisibili tra le varie espressioni, oltre sterili analogie di chi, padrone di una disciplina artistica, si affacciava sulle altre con l’incanto del neofita.
La dimensione fiorentina nella quale ero generazionalmente molto più giovane, fu un buon terreno per consolidare un percorso, al di là di quelle sperimentazioni che a volte sono rimaste concettualizzazioni di forte valore programmmatico, ma che non sempre hanno prodotto lavori musicali altrettanto coraggiosi.
E curioso rilevare come nel caso mio, di Bussotti, di Cardini e di Chiari ci sia stato un sottile filo che ci lega: l’amore per il pianoforte come mostro dalle mille teste (Busoni), ma anche sirena, libro di bordo, in una autobiografia nella quale lo strumento è sempre stato presente.
Creato nel 1982, ha svolto un notevolissimo lavoro il gruppo Format, costituito da Mechi Cena, Jorge Martinez e Francesco Michi. Il gruppo nasceva come momento particolare di riflessione e lavoro sui rapporti tra modi di produzione e modi di fruizione musicale alla luce delle nuove tecnologie. Format Architetture Sonore ha realizzato molti interventi e installazioni, insieme a pubblicazioni come, nella fine degli anni Ottanta, il multiplo periodico L’Estro Tecnologico, scatole di cartone che contenevano una raccolta di interventi da parte di vari musicisti e artisti.
Nel citato programma dell’Estate Fiesolana del 1992 Cardini tentava un interessante diagramma delle caratteristiche metasonore dei compositori toscani che stiamo prendendo in esame:

Alcuni nuovi territori artistici a Firenze, 1960-90, con i loro protagonisti:
Raffinatezza del segno, nuove grafie: Bussotti, Daniele Lombardi.
Scenicità sperimentale, gesto, microteatro: Chiari, Bussotti, Lombardi, Cardini, Vismara.
Spazi altri, apertura d’ambiente: Chiari, Mayr, Vismara, Fratelli Format, Lombardi, Cardini.
Arte Casalinga, senza pubblico: Grossi, Chiari.
Problematiche del tempo, musica speculativa: Mayr.
Computer-art: Grossi, Camilleri, Giomi/Ligabue

Nella linea dei maestri Dallapiccola e Lupi i compositori più importanti sono Romano Pezzati, Ugalberto De Angelis e Gaetano Giani Luporini: figure queste che non possono essere ascritte a un epigonismo accademico, essendo centrifugate dalla severa disciplina dei maestri, molto diversi tra loro, ma degni di una attenzione che potrà avvenire solo in seguito alla maggiore conoscenza della loro produzione compositiva.
Pezzati, fiorentino, ha avuto come maestri Pietro Scarpini, Paolo Fragapane, Lupi e Dallapiccola, e si è diplomato in pianoforte, musica corale, direzione di coro e composizione. A cavallo degli anni Settanta ha ottenuto importanti riconoscimenti internazionali, al Festival du son di Parigi (1971)con il Salmo 43 per otto voci soliste, nello stesso anno al concorso internazionale Angelicum con Und Wenig Wissen per soprano e strumenti su testo di Hölderlin e al Concour international de solidarité di Skopje (1973) con Frammenti biblici per coro e tre gruppi strumentali. Ma forse il più importante riconoscimento gli è arrivato nel 1977 dal primo premio al concorso internazionale Holocaust and Rebirth che fu bandito dallo Stato d’Israele nell’ambito delle celebrazioni per l’anniversario della fondazione con la composizione recordare per voci soliste, coro e strumenti. Per il teatro ha scritto, su commissione del Maggio Musicale Fiorentino l’opera Il Sognatore, favola in un atto su libretto di M.Pezzati che è stata rappresentata nel 1982.
Luporini, nativo di Lucca (1936), ha studiato violino e composizione con Lupi. Anch’egli ha avuto importanti affermazioni in concorsi internazionali e tra i più importanti riconoscimenti ha vinto il primo premio al III concorso internazionale Gaspar Cassadò, bandito dall’Ente Autonomo teatro Comunale di Firenze nel 1972 e nel 1976 il V concorso di composizione dell’Angelicum di Milano con Kontakion per orchestra da camera. La sua vasta produzione è rivolta soprattutto a ensembles ed orchestre di organici vari; un dato molto rilevante della sua produzione è che possiede un interessantissimo istinto teatrale e ha collaborato a vari progetti con Carmelo Bene come Majakovsky, Pinocchio e Hölderlin-Leopardi, di straordinario impatto.
Nato a Milano nel 1932, De Angelis è prematuramente scomparso a cinquanta anni nel 1982. Si trasferì nel 1943, dove studiò corno con Pasqualino Rossi e composizione con Dallapiccola e soprattutto con Lupi, con il quale ebbe una frequentazione e una vicinanza che si protrassero oltre i termini del conservatorio. Scrisse nella sue breve vita una grande quantità di composizioni che purtroppo anche nel suo caso sono rimaste pressochè inascoltate, come Epitaffio op.16 per orchetra (1959), Suite da musiche liutistiche del ‘500 per arpa e orchestra (1962) o A Long Time Ago per orchestra e voce di baritono op.37 (1969). Ha lasciato incompiuto un oratorio drammatico per soli, coro e otrchestra il cui titolo Passione secondo uomini per ogni uomo indica il forte impegno sui grandi temi esistenziali che contraddistinse sempre il suo lavoro di musicista.
È giusto ricordare anche Giuseppe Bonamici che fu allievo di Lupi e Prosperi a Firenze, purtroppo anche’egli scomparso prematuramente a soli 42 anni nel 1978; la sua ricerca oscillava tra l’atonalismo e una protododecafonia, con organici e tematiche non dissimili dagli altri allievi di Lupi.
Quando nel 1972 a Firenze nacque il Musicus Concentus, voluto da Mario Fabbri, Piero Farulli e Leonardo Pinzauti, salutammo l’avvio di una associazione musicale che finalmente si occupasse in modo organico di lavorare sulla musica del Novecento, dedicata alla diffusione di opere anche semisconosciute presso un vasto pubblico di giovani; l’aggancio con la città e l’università è stato ottimo per molti anni e il lavoro che ha condotto il Musicus è stato un’occasione importante per la musica moderna e contemporanea. In seguito a vicissitudini di vario tipo oggi il Musicus ha cambiato completamente rotta e presenta stagioni e grandi concerti prevalentemente di jazz e musica etnica, mentre è sparito completamente il repertorio novecentesco e le stagioni a tema che ne avevano fatto un esperimento pilota.
Ha ormai superato i venti anni di vita anche il G.A.M.O. (Gruppo Aperto Musica Oggi) che fu fondato da Vincenzo Saldarelli, Liliana Poli, Giancarlo Cardini ed altri, proseguendo idealmente i concerti di Vita Musicale Contemporanea. In tutti questi anni l’attività del G.A.M.O. è stata un intenso, irripetibile susseguirsi di prime esecuzioni e di scorribande in repertori di estrema raffinatezza, grazie anche alle attente scelte dei musicisti che lo hanno realizzato. Una buona parte della programmazione è dedicata alle nuove generazioni; il GAMO-Giovani è stato un forum, forse l’unico in Toscana, che per anni ha presentato con sistematicità le composizioni dei nuovi autori. Ma la scarsa attenzione e i miseri contributi che questa istituzione ha sempre ricevuto dalle realtà locali è stata a dir poco disarmante. A nulla sono valse le rimostranze, gli articoli sui giornali, tutte quelle immaginabili iniziative che sono state tentate dai musicisti di questa associazione per potenziarla.
L’insensibilità nei confronti di questa realtà può essere dovuta al persistere di uno scontro tra linee culturali che non trova mai un armistizio; da una parte l’apertura ai possibili sperimentalismi come laboratorio di idee, dall’altra la limitazione di uno scarso interesse, rivolto soltanto a quelle emergenze che ormai si sono consolidate o che non si scostano da forme accademiche. Nato nel 1980, il G.A.M.O. segue di pochi mesi quella lettera nella quale cinquantasette autori avevano chiesto all’allora Direttore Artistico del Teatro, Massimo Bogianckino, una maggiore attenzione nei confronti delle realtà musicali locali; qualche anno più tardi un analogo scambio è avvenuto tra alcuni degli stessi firmatari di quella precedente lettera e l’attuale Direttore Artistico Cesare Mazzonis. La polemica non ha fatto che peggiorare le condizioni per un dialogo che si spera possa riprendere, restituendo al Comunale l’importante funzione di presentare anche una dimensione sperimentale della musica toscana contemporanea.
Alla direzione artistica dell’Orchestra Regionale Toscana (ORT), nata nel 1980 dopo lo scioglimento della Orchestra dell’AIDEM, è stato per un breve periodo anche Luciano Berio, cui è seguito Aldo Bennici nel 1987. Nei programmi dell’Orchestra è evidente un particolare interesse nel recupero del repertorio sinfonico meno eseguito dell’800 e del ’900 italiano, con autori come Pizzetti, Casella, Ghedini, Malipiero, Dallapiccola e alcuni compositori più recenti: linea che poi ha proseguito anche l’attuale Direttore Artistico Giorgio Battistelli, ora che Bennici dirige la Chigiana di Siena.
Sempre nel 1980 (buona annata per le iniziative musicali) nasce il Centro di Ricerca e di Sperimentazione per la Didattica Musicale che si occupa, come scriveva Fiorella Cappelli:

del rinnovamento delle varie forme d’insegnamento della musica con lo scopo di accrescere la partecipazione ad essa come aspetto insostituibile della cultura e, contemporaneamente, di equiparare la preparazione professionale al livello oggi raggiunto dai paesi più avanzati.

L’attività del centro si svolge a vasto raggio e diventa subito importante nella dimensione della Scuola di Musica di Fiesole che di musica contemporanea si è abbastanza occupata anche sul piano didattico, con docenti di fama internazionale come Giacomo Manzoni. Il fiore all’occhiello del Centro per la Didattica è la rivista Bequadro che si è avvalsa di importantissime collaborazioni e a tutt’oggi è comunque una delle poche riviste sopravvissute in Toscana nelle quali si trovino ogni tanto articoli sulla musica d’oggi.
Parallelamente, a Siena da sempre la vita della Accademia Musicale Chigiana è stata particolarmente interessante per la sua continua presenza nel campo della sperimentazione musicale fin dal 1923, anno nel quale il conte Guido Chigi Saracini fece ristrutturare il suo palazzo in via di Città e inaugurò la sala della Micat in vertice. Dall’immediato dopoguerra l’attività si è divisa tra corsi, con docenti come Hermann Scherchen, Goffredo Petrassi, Franco Donatoni e corsi speciali con Evangelisti, Berio, Bussotti e tanti interpreti tra i più importanti della scena concertistica internazionale, in una realtà di produzione musicale e didattica che è stata il polo più importante al di fuori di quello che è accaduto a Firenze.
Da qualche anno è attivo il ContempoArteEnsemble, che sotto la direzione musicale di Mauro Ceccanti ha prodotto molte programmazioni di musica quasi esclusivamente contemporanea, anche con prime esecuzioni assolute; questo gruppo è ospitato al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato.
Il Centro Tempo Reale fu fondato da Luciano Berio nel 1987, ed è un centro di produzione, ricerca e didattica musicale sostenuto dalla RAI, dalla Regione Toscana, dal Comune di Firenze e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, oltre a fondazioni private. È nato secondo dei criteri di innovazione della cultura musicale a tutti i livelli e si avvale delle tecnologie di produzione sonora più avanzate.
Vi hanno lavorato molti compositori in questi ultimi anni, e il centro si è reso disponibile anche per ospitare il lavoro di giovani, sempre nell’ottica di facilitare lo scambio di idee e di esperienze all’interno delle varie espressioni creative. Nell’arco degli anni Novanta Tempo Reale ha realizzato progetti a volte di vaste dimensioni di alcuni importanti autori in tutto il mondo. Svolge un ruolo notevole anche nel recupero e restauro delle vecchie registrazioni assicurando la sopravvivenza di quelle tracce di una sperimentazione ormai di molti decenni fa, conservata su supporti magnetici ormai in via di deterioramento irreversibile.
Recentemente le attività didattiche e divulgative si sono molto ampliate in progetti che coinvolgono sia Firenze sia la regione Toscana e i criteri di flessibilità operativa hanno reso il Centro una realtà essenziale per l’area nella quale opera.
La presenza a Firenze di Berio, come compositore, come Direttore Artistico del Maggio, dagli anni Ottanta in poi, è stata essenziale per lo sviluppo di Tempo Reale che ha sempre seguito in prima persona avvalendosi della collaborazione di operatori come Nicola Bernardini.
Storicamente vi è stata una continuità di attenzione verso i mezzi elettronici e la computer music, prima Grossi e poi Berio hanno reso possibile lo sviluppo costante di soluzioni tecnologiche di sintesi del suono in continuo contatto con altri centri in Europa e nel mondo, mantenendo aperto il varco di una sperimentazione che ha visto molti giovani proseguire e sviluppare una ricerca che ha dato i suoi importanti risultati. La velocità con la quale questi mezzi si sono evoluti è stata straordinaria e le modalità che ormai quarant’anni fa Grossi andava elaborando oggi appaiono molto lontane, ma un filo di prosecuzione della sua ricerca si deve anche al suo allievo Lelio Cammilleri che ha proseguito come docente al Conservatorio di Bologna lo studio, la produzione e la didattica della computer music. Comunque con Tempo Reale si è creata una realtà pilota in Italia e questa attenzione continua alle nuove tecnologie vede impegnati giovani come Francesco Giomi, che ha una duplice formazione di compositore e di ricercatore, e dal 1998 è coordinatore scientifico-musicale del Centro (un altro effetto-onda lunga di Grossi, una seconda generazione di musicisti informatici, della quale fa parte anche Marco Ligabue, attuale insegnante di Informatica Musicale al Conservatorio di Firenze).
Degna di un attenzione particolare nel panorama della musica in Toscana è la figura di Gabriella Bartolomei, straordinaria vocalista il cui lavoro meriterebbe certamente di essere conosciuto approfonditamente. Nata vicino a Bologna si stabilì nella provincia di Firenze dove ha compiuto studi sulla vocalità con Marino Cremesini e di arte drammatica con Nella Bonora e Tatiana Pavlova. La sua unicità consiste nell’aver sviluppato una grande ricerca sulla propria interiorità come studio del respiro, della percezione, dell’ascolto e dell’energia a monte di tutto questo. Il lungo training ha portato la Bartolomei a realizzare sonorità vocali uniche. Dopo spettacoli teatrali come Signorina Giulia di Strindberg e Morte della Geometria, dagli anni settanta in poi ha stretto collaborazioni sempre più strette con vari compositori come Bussotti, Salvatore Sciarrino, Giorgio Battistelli e con me, dando un apporto personale ai progetti compositivi costruiti in una collaborazione con questi musicisti che hanno potuto convogliare nelle loro opere sonorità vocali del tutto inventate dalla Bartolomei, e a volte questo fatto ha rappresentato una vera e propria interazione compositiva.
È da citare tra le nuove generazioni anche Angelo Russo, tra i più giovani compositore operante oggi a Firenze, che ha prodotto vari pezzi strumentali e sta lavorando ad una piccola opera, Il Marinaio, su testo di Pessoa, in cartellone nella stagione operistica 2002 del Teatro Comunale.
Per un approfondimento di informazioni sul quadro delle attività musicali in regione, la migliore fonte è lo studio di Mario Sperenzi, Fiorella Cappelli e Anna Maria Fabbrini pubblicato dal CIDIM (La Musica in Italia, Quaderni Regionali, collana sulla organizzazione musicale nelle regioni italiane a cura di Marcello Ruggieri, Roma 1990).
Altri sperimentatori informatici, forse più artisti visivi che musicisti, chi proveniente da studi musicali, chi da formazione di arti visive, costituiscono linee di ricerca isolate oggi più o meno in rete. Marcello Aitiani, artista visivo di Siena, ha realizzato pitture, sculture, installazioni computerizzate che prevedono collegamenti telematici per la produzione del suono e la stampa della partitura in tempo reale, come nel caso di Nave di Luce, realizzato a Siena, Magazzini del Sale, nel marzo 1990, e in collegamento con il Conservatorio di musica di Firenze.
Anche Sergio Maltagliati di Pescia va sviluppando da qualche anno una ricerca nel campo di processi di semiosi arbitrari che permettano di ideare composizioni destinate indifferentemente all’occhio e all’orecchio, Partiture per Floppy Disk, immagini, suoni, parole. Ma l’aspetto molto interessante della sua ricerca è l’uso interattivo di queste ipotesi operative, attraverso uno scambio in rete di informazioni, materiali e contributi, come nel caso della sua NetOper@, costruita con un procedimento simile alla Mail Art degli anni Ottanta, che annovera contributi di molti compositori tra i quali lo stesso Grossi.
Un altro sperimentatore attivo nei primi anni Ottanta è stato Guido Bresaola, attivo nella Ambient Music, il quale organizzò a Prato un interessante convegno dal titolo Ambiente sonoro e inquinamento acustico, il 10 ottobre 1981; tra i partecipanti si ricorda Albert Mayr e Mario Piatti. Negli atti di questo convegno Bresaola auspicava la nascita di un archivio sonoro della città, per creare una memoria del paesaggio di suoni e rumori, mentre Mayr poneva il problema dell’ambiente sonoro come campo di intervento artistico, collegandosi idealmente con l’esperienza di sound artists come Alvin Lucier, R.Murray Schafer, Max Neuhaus etc. In questo stesso ambito si sono posti successivamente Luca Miti e Roberto Barbanti, appartenenti allo sperimentalismo minimalista, con partiture verbali di azione tese allo sviluppo di esperienze percettive e semplici azioni in relazione con ambienti particolari.
Riccardo Vaglini è un compositore, performer e organizzatore di Pisa molto attivo: nella sua città dal 1993 organizza un festival, Arsenale Musica, che si distingue per una intelligente programmazione tematica. Ha realizzato una rassegna sul pianoforte, Tasto Debole, una su Schoenberg nella quale si sviluppava anche una iniziativa interattiva con altri compositori, una sulla Frontiera e così via, fino a Vandalismo e Distruzione. Come compositore ha all’attivo una produzione che egli stesso definisce sfaccettata, con la possibilità di ripartire sempre da zero, questo rende il suo lavoro in contatto anche con la dimensione dell’installazione ed espressioni mixed-media.
Oltre la soglia di una musica di confine, poi, a cavallo degli anni Ottanta molti hanno detto che Firenze era la capitale del rock italiano, per degli stretti contatti che si erano stabiliti con il mondo dei gruppi londinesi e un consistente pubblico giovanile molto presente ai concerti e nelle discoteche come il Tenax. In effetti vi è stata una notevolissima concentrazione di musicisti e formazioni, attivi in vari campi della musica giovanile, ed il gruppo forse più noto e importante è stato i Litfiba, ma c’erano anche i Sensation Fix, dell’aura “progressive”, i Café Caracas, i Mr.Blues (il Terzolle come il Mississipi…), il Collettivo V. Jara, gli altri gruppi Diaframma, Alcool, Mugnions, Neon, Lightshine, Insieme, Bella Band, gli Zeit, N, Robotnick, Neem, Rinf, Naif Orchestra, etc, fino ai demenziali Avida.
Questa particolare situazione si era venuta a creare grazie anche all’esistenza di una casa discografica che ha dei grandi meriti per la diffusione della musica d’oggi, avendo promosso molti giovani musicisti con un taglio culturale che ha rotto definitivamente i confini tra i vari generi. Si tratta della Materiali Sonori, che in trenta anni di attività ha costruito uno dei più importanti cataloghi di contemporanea in Europa, rappresentando un po’ tutte le espressioni, dai più pesanti sperimentatori ai più leggeri rockettari. È da ricordare anche un’altra etichetta discografica, la Diapason Records, che ha stampato qualche anno fa alcuni cd dedicati ai compositori fiorentini.
In questo clima va citata anche la presenza di alcune radio private come Nova Radio, che ha collaborato spesso con il G.A.M.O., ma soprattutto con Giomi e Ligabue. Controradio nel 1980 realizzò insieme a Zona (no profit art space & archives) – associazione di artisti fiorentini che ha fatto storia in quegli anni una rassegna chiamata Radio d’Artista, nel quadro di una collaborazione, Zonaradio, per cui si dette spazio di trasmissione a molti operatori senza alcun vincolo espressivo o di altro tipo (sempre a Zona, nel 1977, Mayr aveva curato anche i cicli di Suono/Ambiente).
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In clima di bilanci, che dire per esempio della lunga vita del Teatro Comunale, massima espressione della cultura musicale fiorentina? Nel 1993 Leonardo Pinzauti scriveva nella Postfazione della Storia del Maggio (Lucca 1994, L.I.M., pag.373):

E se in più di mezzo secolo di vicende artistiche e politiche si è ripresentato spesso sulle sorti del Comunale di Firenze il demone della crisi (ed era quasi sempre qualcosa di “esterno” ai valori della musica e dell’arte), pur tuttavia restava viva, e risorgeva di volta in volta da macerie più o meno occasionali, la prospettiva di un compito da assolvere, non foss’altro per tener fede ad un patrimonio di memorie che avevano fatto del Maggio Musicale soprattutto un grande capitolo nella stessa storia di Firenze.
Ora invece tutto sembra esser diventato meno chiaro, sotto il peso di condizionamenti sempre più drammatici…

È fuor di dubbio che la gestione di un grande teatro come il Comunale di Firenze sia molto complessa e difficile ma, parlando delle scelte artistiche, dal Maggio Musicale del 1964, quello Espressionista fatto da Vlad, è stato difficile vedere una programmazione che disegnasse organicamente una lettura della musica del Novecento, se non proprio contemporanea, al di là della consuetudine del teatro d’opera con i migliori direttori, cantanti, registi etc.. Non si è visto però neanche un eclettismo di scelte coraggiose, altra linea, forse ancora più interessante, che abbia annoverato un consistente numero di compositori diversi e di nuove produzioni: la tendenza per lo più pare essere stata quella di rafforzare figure consolidate, anche se va riconosciuto che in alcuni periodi, come sotto la direzione artistica di Bogianckino, e l’attuale di Mazzonis, l’attenzione al contemporaneo si è fatta più viva.
Certi percorsi creativi, come è nell’ordine delle cose, sono sperimentalismi a volte non di facile lettura, mentre altri seguono linee più di facile descrizione, che possono essere paragonati per esempio alla linea Prokofiev–Shostakovich, che dopo una precedente forte resistenza - negli anni tra le due guerre - ha trovato un largo consenso, tanto che questi due autori si ritrovano costantemente dagli anni cinquanta in poi nella programmazione del teatro. Questo è valso anche per Bartòk, accolto con più moderazione, ma sicuramente apprezzato. In generale si può osservare che sembra essere prevalsa una scelta che potrebbe essere definita figurativa, nella quale la musica strumentale e quella operistica sono comunque riferite a campi descrittivi, mentre l’astrattismo di una musica più interiore, di sperimentazione linguistica, di ricerca nel campo dello spettacolo, con esiti di impatto col pubblico più ermetici e difficili, ha avuto una fronda meno impegnata che l’ha considerato lontano dai valori aquisiti di una presunta tradizione.
Questo è abbastanza comprensibile alla luce del difficile cammino della produzione artistica in una Firenze certo non spregiudicata nei confronti delle novità.
Dal punto di vista dei compositori toscani c’è da aggiungere che nell’arco storico del secondo Novecento la latitanza di un supporto musicologico-critico, strumento di attendibili interpretazioni sulla nuova musica che veniva eseguita, può essere stata la principale causa di una rimozione, di una perdita di memoria. Nel 1918 Alfredo Casella nella sua rivista Ars Nova, che uscì a Roma per alcuni anni, aveva inventato una rubrica dal titolo Sciocchezze, Spropositi, Enormità ecc. ecc. e se si seguissero le sue orme raccogliendo ciò che è stato scritto in proposito dal 1945 ad oggi, al di là di importanti e illuminanti contributi di pochi, ne leggeremmo delle belle, fino a acrimoniosissimi attacchi personali, fino a esilaranti cantonate, che darebbero il sapore a un atteggiamento di fondo: dover eseguire la musica contemporanea come prendere lo sciroppo per la tosse.
Certamente è arduo pensare che si possano creare di nuovo condizioni che permettano rigorose letture storiche o festivals sulla sperimentazione novecentesca quando un pubblico chiede che il rito del concerto e dell’opera vengano assolti secondo le tradizioni conosciute. Peraltro la stessa conformazione del teatro tradizionale, con palcoscenico, buca per l’orchestra, parterre, palchi e gallerie, è oggi un vincolo ottocentesco che pesa su una creatività che negli ultimi trenta-quaranta anni si è indirizzata altrove, verso nuovi spazi scenici con caratteristiche completamente diverse, nuove tecnologie spettacolari, eventi che vedono l’opera lirica tradizionale come datata. Va detto però che pur esiste una grande produzione operistica attuale che si avvale delle strutture tradizionali in un’onda avversa alle sperimentazioni, o che sperimenta in modo molto soft, in linea con le aspettative di un rituale rassicurante.
Il mondo si trasforma con grande velocità, ma la dimensione di ancoramento alle tradizioni muta solo pelle; in realtà l’osservatorio della realtà toscana e fiorentina in particolare fa pensare che i temi di fondo che condussero negli anni Sessanta-Settanta a produzioni artistiche nuove, di grande forza utopica, siano assolutamente attuali. Le foto del Maggio Musicale degli anni intorno alla seconda guerra mondiale, con le serate a Boboli, con le migliori collaborazioni artistiche che allora come oggi hanno fatto del Maggio una delle realtà più importanti di Italia, ci raccontano come poco sia cambiato nello spettacolo musicale. D’altronde non è possibile fare il paragone con analoghe istituzioni per le arti visive in Toscana, dato che non esistono realtà espositive altrettanto significative dei teatri, con una attività che risalga a settanta-ottanta anni fa. Bisognerebbe andare a vedere cosa succede in Europa, in città dove teatri e sedi espositive hanno avuto un forte impulso ed hanno tentato una parallela evoluzione in questo campo: troveremmo nel confronto lo stimolo a nuove mentalità, nuovi spazi, nuove realtà programmatiche,…ancora forse possibili con i vecchi finanziamenti?
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È opinione diffusa che l’assenza della musica contemporanea nel mondo dei media e dall’attenzione della gente sia dovuta alle difficoltà che questa musica presenta. Gino Castaldo, per esempio, sul n.7 del supplemento di Repubblica, Musica Rock & Altro (3 maggio 1995, pag. 3), rispondeva così ad una mia lettera che lamentava l’assenza di Altro, intendendo la musica pesante (vs quella leggera), in quel giornale dedicato ai giovani, che tirava dalle seicento alle settecentomila copie:

Eppure la maggior parte delle “ingiuste”emarginazioni di cui si lamenta Lombardi non sono dovute certo alla influenza che può avere questo giornale, ma a un vuoto istituzionale che non ha eguali in nessun paese del mondo cosiddetto civile. Ma questo è il punto: non sarebbe lecito attendersi dagli appassionati compositori che firmano questo appello anche un piccolo sforzo di autocritica? Cosa hanno fatto per dialogare e avvicinarsi al resto delle musiche, per comunicare con questi giovani così maltrattati dai media? Cosa hanno fatto per evitare lo snobistico metalinguaggio di molta musica contemporanea, che spesso parla solo a sé stessa e di sé stessa?

In questo nodo sta il problema. La produzione musicale fino agli anni Sessanta aveva come supporto mediatico l’esecuzione dal vivo e la stampa più o meno interessata e specializzata, che considerava musica soltanto quella che nasceva con intenti artistici, valutandone certo il consenso, contemporaneamente al tentativo di collocarne anche una lettura musicologica, spesso disinformata, spesso aberrante, a volte centrata, ma sempre dando alla musica eseguita la dignità di opera d’arte. Con la rapida evoluzione dei media, dopo le rivoluzioni importanti in altri generi musicali, dai Beatles in poi, è iniziato un minestrone che mi fa molto felice, perché la contaminazione è stata teorizzata, tra molti, anche da me ventenne verso la fine degli anni Sessanta.
Si ritengano quindi un po’ stupidi e molto superati i preconcetti sulla vera musica e le posizioni aristocratiche che guardano dall’alto al basso altre musiche, ma quello che va detto e ripetuto è che ogni genere di musica o ogni commistione di generi necessita di una chiarezza sulla modalità di ascolto che implica.
Tutte le musiche sono belle – non c’è musica + bella di quella che sto ascoltando ora, scriveva Giuseppe Chiari negli anni Settanta – ma ognuna necessita di orecchi diversi, si configura secondo riti di ascolto che non possono essere omologati in un unico atteggiamento.
Nei primi anni del Novecento Ferruccio Busoni pensava che l’ascolto della musica avesse un ruolo importantissimo per la crescita interiore, al punto di auspicare che le stesse caratteristiche architettoniche del luogo d’ascolto, dell’auditorium, inducessero addirittura ad una sorta di sacralità più o meno laica, per esempio che si potesse salire dei gradini per raggiungere il parterre del teatro, in modo da accedere con un progressivo raccoglimento. Da questo alla coeva musique en tapisserie di Erik Satie c’è un abisso, e da allora ad oggi si sono sviluppate poetiche altrettanto lontane tra loro e si sono inventate tante diverse modalità che non si può fare d’ogni erba un fascio: vi è stata una tale concentrazione di invenzioni, anche in musica, che il Novecento è stato forse il secolo più interessante per l’incredibile sviluppo di tecnologie, di tecniche, di nuovi spazi, di nuovi suoni, di nuove esperienze.
Ma negli ultimi venticinque anni, soprattutto con la prepotenza della televisione, e dietro a lei tutto il resto, si è creato un collo dell’imbuto che permette oggi a Castaldo di dire che i compositori dovrebbero fare autocritica; questo però significherebbe adeguare il loro lavoro alla incultura musicale generale che è sicuramente colpa, come lo stesso Castaldo dice, di un vuoto istituzionale che non ha eguali in nessun paese del mondo cosiddetto civile. In questo caso il compositore dovrebbe avere il ruolo di intrattenitore, scrivere secondo convenzioni e semantiche dalle quali è difficile derogare, come dialogare in rete, eliminando per sempre quella spinta, quello sguardo obliquo, che ha caratterizzato l’arte in tutti i secoli precedenti a questo polpettone del villaggio globale. Le geremiadi sulla assenza della formazione musicale di base ormai sono un ininterrotto lamento che fino ad ora ha trovato orecchi da mercante e i risultati di questa mancanza di competenza comune sono che c’è una specie di invasione di musiche che vanno o non vanno, spesso in base a criteri di consumo superficiale e momentaneo: ciò va bene per l’intrattenimento mediatico, ma la faccenda è ben diversa se si parla di musica come di qualcosa destinato a durare per valori che si dipanano nelle generazioni successive.
In una intervista su La Repubblica15, così Berio rispondeva alla domanda di Gregorio Moppi: “cosa pensa dell’altra musica”:

C’è chi la chiama “musica popolare contemporanea”. Chiamiamola con il suo nome: musica leggera o commerciale. Una musica cioè che tende al successo commerciale, al divertimento.
Tutte cose sacrosante perc hè la musica ha tante maniere di vivere e di manifestarsi e c’è qualcosa di interessante dappertutto. Comunque chi afferma che Beethoven e il rock sono la stessa cosa è imprudente.

Il Beethoven delle numerose Deusche Tänze e Länderische Tänze, lo Schubert dei tanti Valses, e dai primi dell’Ottocento la sterminata produzione più leggera ha convissuto in questi grandi autori con opere di grande impegno e di immenso valore artistico che a tutt’oggi sono pochissimo ascoltate. Le strade della creazione musicale sono passate dall’utopia di fare arte non per dialogare col pubblioc né per snobistici e narcisistiche pulsioni metalinguistiche, ma per offrire all’umanità il contributo della propria visione del mondo e opere che questo racchiudono in una sintesi che poco ha a che vedere con il marketing. In molti esempi possibili, come nella visionarietà dell’ultimo Beethoven sta la risposta al nodo del problema: valore dell’opera-successo commerciale.
I compositori non possono pensare di fare autocritica altro che all’interno del loro lavoro di sperimentatori e rendere in opere il frutto di questo processo, ma se le loro opere sono disattese perché lontane dai possibili destinatari, ai quali a volte è chiesto uno sforzo di curiosità e attenzione necessari, si arriva allo stato attuale delle cose, in una Italia che annovera tutt’oggi centinaia di artisti, di compositori che si alzano la mattina per scrivere musica, impegnati su vari fronti espressivi, con molteplici sconfinamenti per i quali non esiste una musica contemporanea come stile, ma infiniti risultati fonici, dal più facile al più astruso.
Sono rari invece i musicologi, giovani o vecchi che siano, che svolgano un lavoro di interpretazione, e creino dei ponti con la competenza comune degli ascoltatori, sempre più bassa e lobotomizzata da programmi televisivi che dedicano alla musica pesante manciate di minuti notturni a orecchi insonni, in un palinsesto che bombarda con altra musica, un business di managers e case editrici: un sottobosco tutto da studiare, che investe miliardi in queste operazioni.
In più ci sono critici musicali sempre meno esperti, sempre più letterariamente maîtres à penser, ed alla fine il clima è massicciamente censorio nei confronti dei compositori che vanno avanti nel loro itinerario, nonostante tutto rivendicando una sopravvivenza che, anche e specialmente, le istituzioni disattendono. Basti pensare che non esiste in Italia un fondo di Beni Culturali che si occupi di acquisire catalogare conservare e mettere a disposizione i manoscritti, per cui se un compositore non stampa la sua musica c’è il rischio che le partiture vadano sulle bancarelle dei mercatini antiquari o che si perdano per sempre.
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Nel corso di questi ultimi decenni quindi, cosa è cambiato e cosa si è imbalsamato? Se si riuscisse a leggere immediatamente la realtà e interpretare elasticamente, ma meno superficialmente, le trasformazioni, potremmo costruire le modalità adeguate per una lettura dell’attualità e del passato dal punto di vista dell’oggi, senza fughe all’indietro, piacevoli ma evasive.
Bucchi nel 1966 pubblicò un interessantissimo articolo su Disclub (Musica Sacra, avanguardia e industria culturale, anno IV, maggio-giugno-luglio-agosto 1966, n.20-21) nel quale, sullo spunto di un convegno ad Assisi sulla musica sacra, rilevava:

L’industria culturale musicale favorisce oggi, con uguale zelo, due fenomeni di costume che sembrano antitetici, ma che obbediscono sostanzialmente alle stesse regole.
Nel campo della musica di largo consumo popolare l’industria culturale spinge il suo prodotto (p.e. una “canzone”) al massimo successo commerciale nel minor tempo possibile: il periodo del successo deve essere necessariamente “breve”, perché un periodo più lungo di favore da parte del pubblico ridurrebbe notevolmente la possibilità di immettere a breve scadenza sul mercato un nuovo prodotto. La musica “di consumo” deve essere quindi molto ascoltata, molto venduta ma molto presto dimenticata. In una situazione del genere è naturalmente fatale che la cattiva musica scacci quella buona dal mercato culturale, poiché tutti gli sforzi sono rivolti non a migliorare il gusto, ma a ridurlo a quel minimo comun denominatore che consente il più ampio sfruttamento.
Nel campo della musica colta l’industria culturale sembra apparentemente invertire rotta per soddisfare non le facili esigenze dei “più”, ma quelle sofisticate dei “pochi” (gli
happy few). Anzitutto però è bene non sottovalutare l’imponente apparato che si articola nello spazio dei cosiddetti “pochi”. Mezzi radiotelevisivi, dischi, registratori, case editrici, riviste specializzate; infine la schiera numerosa dei teatri e delle istituzioni di musica da camera e sinfonica sovvenzionata. Una posizione di potere insomma tutt’altro che trascurabile.

Oggi, con il senno di poi, sappiamo che in questi trentacinque anni trascorsi da allora, quella che Bucchi (e non solo lui) chiamava industria culturale è andata nella direzione soprattutto del consumo, creando una priorità economica schiacciante di musiche di intrattenimento, di facile ascolto, dalla etnica al rock, alla new age, che sono ben presenti nella vita di tutti i giorni, nei media e dal vivo. La musica colta (ma l’altra è davvero incolta?), che nelle parole di Bucchi aveva fiducia nel supporto di mezzi radiotelevisivi, dischi, registratori, case editrici, riviste specializzate e teatri sovvenzionati, pur avendo una sua realtà di mercato, rimane dentro una nicchia di happy few che è in aumento, ma che non è paragonabile ai grandi numeri dei media.
Il refrain è sempre lo stesso: la cultura con la quale si è gestito il patrimonio musicale non si è emancipata da preconcetti di trenta e più anni fa, la riforma dei conservatori è ancora un faticoso work in progress nel quale non si affronta mai un discorso sui vari generi diversi e solo da poco tempo si stanno davvero modificando i programmi di studio ormai anacronistici; i giovani non hanno biblioteche musicali e audioteche da consultare, quindi non possono accedere ad un patrimonio di decine e decine di migliaia di composizioni scritte nel secolo ormai scorso. A questo si aggiunge che molta musica è stata eseguita una volta e mai più: se non è stata registrata non esiste altro che un manoscritto da qualche parte. La disinformazione e il disorientamento si uniscono all’invasione sonora di rapido consumo, e si può essere quindi in parte d’accordo con Bucchi quando definiva naturalmente fatale la lotta vincente di una cattiva musica che scaccia quella buona.
Quando ai compositori è stato chiesto di affrontare questo problema, spesso la risposta è stata un po’ da grillo parlante; la visione delle cose in chi passa il suo tempo a scrivere musica con impegno non commerciale porta a denigrare soprattutto i meccanismi di mercato e la banalità di certi risultati fonici, a fronte di immense campagne pubblicitarie che fanno vendere prodotti a volte musicalmente limitati. Di fondo comunque il divario di vedute nell’uso di materiali sonori e il diverso modo di concepire l’ascolto, fanno crescere la spaccatura tra ricerche musicali che spesso usano gli stessi studi di registrazione e gli stessi apparati tecnici.
Il successo di queste musiche extra-in-post-colte contraddice gli specialisti, perché spesso è il testo o qualcosa nel look dei musicisti o altri imponderabili elementi videomusicali che fanno presa sull’immaginario giovanile che risponde con entusiasmo, in una situazione di ascolti con bassissima competenza, ma con una spiccata sensibilità, in una dimensione di vita che è troppo lontana da chi ha passato decenni a calibrare, archiviare, costruire, centellinare, ma anche riflettere sulla funzione della musica nel sociale, fabbricare cataclismi, oasi rassicuranti, seguire ispirazioni, sperimentare situazioni estreme, tentare di entrare nella savana dei linguaggi di consumo etc, etc…
Però i fenomeni sono molto più complessi di questa semplicistico quadro e l’accusa di incompetenza alle nuove generazioni è troppo facile, perché dall’analisi del prodotto sonoro si deve passare allo studio in generale dei fenomeni di costume, a quanto una moda si sviluppi spontanea o più o meno indotta, alla potenza dell’immaginario dentro la musica: qualcosa che arriva alle nuove generazioni che rispondono e dal loro consenso nasce un rimando, un feed-back che indica non soltanto una tendenza momentanea, ma dove in generale sta andando il mondo. Quello che offre la videomusic è costruito da gruppi di specialisti non sempre giovani, che confezionano per i giovani una dimensione giovanile, con una realtà più o meno virtuale che molto raramente, o quasi mai, è possibile trovare nella sperimentazione pesante. Questo fa si che la ricerca più interessante oggi appaia quella sulla soglia di queste espressioni, più ricca di valenze comunicative, dal Brian Eno di qualche anno fa a Laurie Anderson e a tanti altri che possono essere individuati in giro per il mondo, tra musei, sale da concerto e discoteche.
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Renzo Arbore, in un articolo di qualche anno fa, su un supplemento del settimanale L’Espresso16, faceva un’interessante distinzione tra musica giovane, musica dei giovani e musica per i giovani. Vale la pena di riportare il significato letterale che dava a queste tre definizioni:

Musica giovane: musica fresca, appena nata, non ancora matura almeno in senso anagrafico ma con tutta l’effervescenza e a volte la cattiveria della giovane età, insomma musica densa di fermenti e di idee nuove e, teoricamente, corrispondente alle aspirazioni, alle esigenze e ai principi culturali e non, della generazione giovane.
Musica dei giovani: musica che appartiene ai giovani, per scelta, per scoperta o riscoperta, per eredità o per diritto, o anche musica fatta dai giovani per i loro coetanei, e da essi apprezzata, condivisa o consumata. Ovvio che a stabilire se una certa musica è o no dei giovani non sono soltanto i diretti interessati, ma anche e soprattutto i cosiddetti esperti, i mai abbastanza deprecati “critici”, i grandi mass-media e così via.
Musica per i giovani: musica che, sia nelle intenzioni degli operatori culturali appartenenti al mondo giovane, sia soprattutto in quelle delle grandi industrie discografiche e editrici che si sono impadronite di un mercato decisamente appetitoso (sia dal punto di vista commerciale che politico), è fatta affinché i giovani la consumino, la amino, la scoltinoe ne subiscano il fascino, l’influenza e il messaggio più o meno evidente o nascosto. Tranne che nel caso di etichette discografiche alternative (ma anche qui il termine alternativo serve spesso a mascherare altre industrie del tutto uguali a quelle gestite dal grande capitale), qui i giovani c’entrano poco o niente a livello di scelta o di idee: la “musica per i giovani” è quasi esclusivamente quella che il music-businness destina ai giovani, e a sceglierla sono i dirigenti delle grandi industrie discografiche e i boss che maneggiano i soldi e i gusti del grosso pubblico giovane. Insomma è un prodotto, e nulla più.

Dopo 24 anni questa analisi è attuale: è un po’ curioso parlare di giovani come categoria, comunque la speranza è che tra la musica dei giovani ci sia quella dei giovani di tutti i tempi. Un bel gioco potrebbe essere quello di andare a vedere a quanti anni tanti compositori hanno scritto lavori oggi considerati tra le espressioni artistiche più grandi: tralasciando Mozart, si pensi a Schubert che muore a 31 anni, Mendelssohn che scrive le musiche di scena per A Midsummer Night’s Dream a 17 anni, Chopin…ma l’elenco sarebbe interminabile.
Ciò che ci consegna la storia vive da secoli dentro un ventaglio di esperienze tra le più semplici e le più complesse. Sono nate oggi varie culture musicali; data per scontata una possibile equivalenza in generi diversi, si rende però necessario differenziare bene le modalità di utenza per ogni singolo ascolto, per non creare le attuali confusioni di grandi abbuffate estive nelle quali la musica è un sottofondo en tapisserie, senza però gli happy new ears che Cage avrebbe desiderato. Ma è più facile trovare gli happy few che Bucchi descriveva a frescheggiare nelle poltiglie sonore estive che non giovani orecchi davanti a quelli che sono e dovrebbero essere considerati capolavori della espressione musicale e artistica del nostro tempo. Normale, ovvio, deludente.
La ricerca artistica dovrebbe lavorare sulla scelta di parole, di immagini e di suoni alle nuove generazioni pensando a offrire ai bambini di oggi una possibilità, la più vasta, di conoscere ogni tipo di musica, una musica totale senza meccanismi punitivi, senza i noiosi appesantimenti di una cultura stantia; lasciamo che le loro scelte volino su orizzonti ben più lunghi di quelli che possono offrire oggi una televisione standardizzata e una vita concertistica conseguente. Forniamo delle chiavi di lettura, un passepartout di pochi semplici elementi, di segnaletiche che possano indirizzarli a differenziare bene dentro di sé un’esperienza lunga e complessa, vissuta nel proprio mondo interno quando i suoni si rivolgono a questa dimensione, o nel rito collettivo, quando la musica è fatta con finalità aggreganti e di intrattenimento: queata differenza rimane il punto sostanziale oggi troppo non preso in considerazione.
I mass-media poi hanno azzerato i luoghi d’ascolto: nella stessa poltrona di casa possono susseguirsi in un vorticoso zapping tante musiche diverse, mentre nella città di un tempo ogni musica aveva il suo spazio. Questa considerazione è basilare per ripartire verso una identificazione delle modalità di ascolto. La dimensione urbana di una vita accelerata è stata la principale causa del rumore di fondo quotidiano che rende difficile aguzzare l’orecchio.
Saranno le nuove generazioni a dire dove vanno le cose, se il guazzabuglio mass-mediatico avrà reso la musica inascoltabile o l’accettazione del rumore della vita, nel quale Cage sentiva la saggezza di una non volontà creativa, formerà nuove sensibilità; non si può dire oggi che ne sarà di musicisti-sacerdoti della loro liturgia o feticisti della forma o neoespressivi o neofusion o neo qualcos’altro o chissà…
Che parta da Firenze e la Toscana un processo metalinguistico così come è accaduto in passato? Sarebbe la logica conseguenza di una lettura storica degli ultimi cinquanta anni, anche se può rendere scettici il difficile dialogo con le istituzioni che non riescono a decidere quali progettualità scegliere e sostenere ma, fuori da un vero rapporto con l’essenza delle cose, si occupa soltanto di auditel e di assicurarsi che tutto sia giustamente a norma.

1 Cfr. “La Rassegna Musicale”, Torino, X, n.6, giugno 1937, in “Parole e Musica”, raccolta degli scritti di Luigi Dallapiccola a cura di Fiamma Nicolodi, Milano 1980, Ed.Il Saggiatore, pag.257.

2 2 Cfr. “Parole e Musica”, raccolta degli scritti di Luigi Dallapiccola a cura di Fiamma Nicolodi, Milano 1980, Ed.Il Saggiatore, pp. 22-37.

3 Cfr. il programma di Musica nel nostro tempo 1983: “Firenze nel dopoguerra: aspetti della vita musicale dagli anni ’50 a oggi”, Milano 1983, Opuslibri, pag.10

4 Op.cit., pag.448.

5 Cfr.”Sulla strada della dodecafonia, op.cit., pp.442-463.

6 Op.cit., pp.66-93

7 Op.cit., pag.453.

8 In “Bussottioperaballet Genazzano, Scuola Spettacolo”, programma delle Giornate Internazionali 15,29 giugno 1986.

9 Cfr. “Il libro segreto di un musicista”, Firenze 1972, Nardini Editore - Centro Internazionale del libro, pp.55.56.

10 Roma 1946, Ed.DE Santis.

11 però va detto a questo proposito che l’informazione comunque passava, se si pensa che grazie a Casella e la SIMC nel 1934 il Teatro Comunale di Firenze realizzò un Festival di Musica Contemporanea nel quale in ogni concerto si presentava la musica di una diversa nazione europea: iniziativa mai più ripetuta e oggi quasi insperabile…)

12 in 1985 La Musica, anno II n.11, pag.14, Roma 1986


13 Cfr. booklet dell’edizione discografica (Diapason records DRCD 02/1986) a cura di Renzo Cresti.

14 Cfr. Marcatrè, n.3, Roma, febbraio 1964, pag.21

15 Domenica 5 luglio 1998.

16 Cfr. ARBORE, R., Pop rock punk, in Suppl. al n.40 dell’, 9 ottobre 1977, pp.199-213.

© Daniele Lombardi